Referendum Giustizia, oggi 12 giugno 2022: i cinque quesiti

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Il 12 giugno 2022 gli italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari riguardanti il funzionamento della giustizia. Si voterà in concomitanza con il primo turno delle Amministrative in circa mille Comuni italiani, ma solo la domenica, dalle 7 alle 23. Come spiega il sito internet de Il Tempo, per validare il risultato della consultazione occorre che alle urne si rechi almeno il 50% più uno degli aventi diritto. Lo spoglio, domenica sera, partirà proprio dai referendum, mentre il giorno dopo toccherà alle Amministrative.

Il primo quesito!

Il primo quesito viene presentato come «riforma del CSM». Interviene sul sistema elettorale per l’elezione dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura. Attualmente è previsto che per candidarsi sia necessario raccogliere le firme di almeno venticinque colleghi magistrati. Il referendum abrogherebbe questa norma permettendo a chiunque di presentarsi senza cercare il supporto dei colleghi.

Questo, nelle intenzioni dei proponenti, renderebbe minore il peso delle correnti nel determinare l’elezione dei membri del Csm. Membri che, così, non sarebbero poi costretti a “sdebitarsi” nello svolgimento della propria funzione. I sostenitori del no, invece, ritengono che una variazione così minima del sistema di elezione risulterebbe completamente ininfluente.

Il secondo quesito!

Il secondo quesito riguarda l’«equa valutazione dei magistrati» ed è quello tecnicamente più complesso. Si punta ad abrogare le regole che limitano la partecipazione dei membri non togati alle deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari. Questi due organi, tra le varie cose, formulano i pareri finalizzati alla valutazione di professionalità dei magistrati da parte del Csm. Oltre ai magistrati, ne fanno parte esponenti dell’avvocatura e professori universitari. Tuttavia la loro partecipazione è ammessa in un numero limitato di casi.

Il referendum cancellerebbe le limitazioni e, di fatto, anche professori e avvocati potrebbero sempre dire la loro sulla professionalità delle toghe. I proponenti sostengono che aprire le valutazioni a soggetti estranei all’ordine giudiziario possa renderle più oggettive e meno condizionate dalla corporatività. I sostenitori del no, invece, ritengono che la funzione giudiziaria sia troppo delicata per affidare le carriere dei magistrati al giudizio di professori o avvocati che, magari, in un futuro potrebbero trovarsi a essere controparte in un giudizio degli stessi magistrati valutati.

Il terzo quesito!

Il terzo quesito riguarda la «separazione delle carriere dei magistrati». Attualmente il passaggio tra la funzione giudicante (il magistrato) e quella requirente (il pubblico ministero) è regolato da una serie di norme e vincoli. Il referendum, abrogando tutte le norme sul passaggio, di fatto lo renderebbe impossibile. Ogni “togato” dovrebbe scegliere quindi a inizio carriera se svolgere la funzione di giudice o quella di pubblico ministero. Secondo i proponenti, applicare questa distinzione rigorosa eviterebbe quella “contiguità” tra le due figure che talvolta rischia di minare l’equità e l’indipendenza del giudice. L’accusa, svolgendo lo stesso lavoro del magistrato, avrebbe una familiarità con esso e un indubbio vantaggio sulla difesa.

Chi contesta il referendum, invece, sostiene che sottraendo il pubblico ministero della giurisdizione dei magistrati, questo finirebbe sotto il controllo del Governo. Di fatto, perderebbe autonomia nell’azione penale e la difesa dei diritti e delle garanzie nello svolgimento delle indagini sarebbe legata al clima politico contingente.

Il quarto quesito!

Il quarto quesito intende porre «limiti agli abusi della custodia cautelare». Si può semplificare così: attualmente la custodia cautelare in carcere in attesa di giudizio è possibile solo se, secondo il giudice, si verifica almeno uno di questi tre presupposti: pericolo di fuga, rischio di inquinamento delle prove, possibilità di reiterazione del reato per il quale si è sotto procedimento. Il quesito referendario, sostanzialmente, mira a cancellare, o per lo meno a rendere molto più rara la reiterazione del reato. Secondo i promotori del quesito la norma attuale, in base a questo presupposto, tende a giustificare in moltissimi casi una forma gravissima di limitazione della libertà personale pur in assenza di prove certe o di sentenza definitiva.

I sostenitori del no ritengono che un’abolizione così “tranchant” rischierebbe di indebolire uno strumento di prevenzione fondamentale. Si citano, ad esempio, l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso del coniuge violento), oppure il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (nel caso di atti persecutori). Va notato, peraltro, che il quesito lascerebbe intatto l’attuale quadro legislativo per quanto riguarda i reati di mafia o quelli commessi con arma da fuoco.

Il quinto quesito!

Il quinto quesito, infine, si propone l’«abolizione del decreto Severino». Mira meramente a cancellare la legge introdotta in funzione anti-corruzione ai tempi del governo Monti e che prevede una serie di misure per limitare la presenza nelle cariche pubbliche elettive di soggetti autori di reato, stabilendo il divieto di ricoprire incarichi di Governo, l’incandidabilità/ineleggibilità alle elezioni politiche o alle elezioni amministrative, o la decadenza da tali cariche, in caso di condanna definitiva per determinati delitti. Secondo i promotori del referendum alcuni meccanismi della legge Severino, come la sospensione automatica dalle cariche elettive in caso di condanna non definitiva, risultano dannosi sia per le istituzioni che per i soggetti coinvolti, specie quando si arriva poi a una sentenza definitiva di assoluzione.

I sostenitori del no, invece, ricordano come il quesito miri a cancellare non solo gli aspetti controversi della norma, ma l’intera misura legislativa. Compresa la parte che regola la decadenza e l’incandidabilità dei parlamentari condannati con sentenza definitiva a una pena superiore a due anni di reclusione. La parte –  ricordiamo – che portò anche alla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore dopo la condanna a quattro anni per frode fiscale.

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