Rider: la regione Lazio batte sul tempo Di Maio e approva legge a difesa dei fattorini!

Lavoro, secondo giudice di Milano il rider non è un lavoratore subordinato

La giunta regionale del Lazio ha approvato oggi una proposta di legge a tutela dei rider e dei lavoratori che operano tramite piattaforme digitali. E’ il primo testo di legge in Italia che intende garantire maggiori diritti ai lavoratori della Gig economy. Il testo dovrebbe fissare qualche paletto in più a difesa dei lavoratori al servizio di piattaforme digitali.

La novità arriva all’indomani dell’incontro tra Luigi Di Maio e una rappresentanza di manager delle aziende della cosiddetta food delivery, le consegne di pasti a domicilio, da JustEat a Foodora.

L’intenzione originaria di Di Maio era di attuare le proposte contenute nel cosiddetto decreto dignità, salvo tornare sui suoi passi e dare il via a un tavolo di contrattazione che vedrà seduti insieme amministratori delegati e parti sociali. Sia la legge appena approvata in Lazio che il tavolo di lavoro di Di Maio cercano di delimitare un fenomeno che si spinge ben oltre all’immaginario, un po’ patinato, delle consegne di cibo.

Quasi 6 su 10 lavoratori andrebbero in rosso con una spesa da 500 euro.

I cosiddetti riders, i fattorini che consegnano pizze in sella a bici e scooter, sono il risvolto più visibile della gig economy. Ma la categoria non rappresenta né l’unico né il più rappresentativo dei fenomeni dell’economia dei lavoretti e del suo problema principale: l’inquadramento giuridico dei suoi non-dipendenti, sospesi in un limbo dove entrano in gioco troppi fattori rispetto agli schemi del lavoro tradizionale.

Secondo una già citata ricerca della Fondazione Rodolfo De Benedetti, un istituto di ricerca no-profit, la gig economy coinvolgerebbe in Italia dai 700mila al milione di lavoratori. Di questi appena 10mila sono al servizio delle piattaforme di consegna di pasti, mentre la maggioranza si divide fra impieghi precari che vanno dall’elaborazione di dati per le aziende alle traduzioni freelance, passando per servizi di baby sitting e pulizie domestiche.

Attività che finiscono per diventare anche fonti di reddito esclusive, se si considera che oltre il 20% del campione si dedica a tempo pieno ai «lavoretti». L’equivalente di una quota di 140mila-200mila lavoratori che vive in un regime di pagamenti a cottimo, basando le proprie entrate sulle ore di lavoro che riescono a essere cumulate durante la settimana.

D’altronde è un’altra indagine della fondazione Debenedetti a fotografare un mondo diverso da quello dei «rider giovani e intraprendenti», uscito dalla presentazione che le imprese hanno fatto di sé al Festival dell’economia di Trento. Ad esempio si evidenzia che meno del 20% dei gig workers italiani rientra nelle fascia tra i 20 e i 25 anni, contro una quota di quasi il 40% che viaggia tra i 35 e i 40 anni. Chi si dedica esclusivamente ai «lavoretti» riesce a portare a casa una media di poco più di 14 ore a settimana, ma in quasi un caso su due vorrebbe lavorare di più.

Quanto si guadagna? I numeri variano. In un mercato di tutt’altre dimensioni come gli Stati Uniti, secondo dati del portale Earnest, oltre l’80% dei gig workers non riesce a arrivare a 500 dollari mensili. In Italia i volumi devono essere abbastanza simili.

Oltre il 12% dei gig workers, sempre secondo la Fondazione De Benedetti, non riuscirebbe a coprire dall’oggi al domani una spesa di 500 euro mensili, a fronte di un 19% che si troverebbe costretto a «chiederli in prestito ad amici o parenti», un 8% pronto a «vendere qualcosa», un 4,4% incline a rivolgersi a una banca e un ulteriore 15,6% che dilazionerebbe la spesa pagando con carta di credito. La sintesi del tutto è che il 59,9% degli intervistati non riuscirebbe ad affrontare in autonomia un esborso da poche centinaia di euro.

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