Pensioni, le novità sul tavolo della trattativa

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Che la riforma delle pensioni permetterà di lasciare senza difficoltà il lavoro ben prima dei 67 anni è una delle poche certezze a tutt’oggi. Ma se il punto fermo dei Sindacati è sempre lo stesso dal 1º gennaio 2023, ovvero pensioni già a partire dai 62 anni per tutti o con 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica, il Governo gioca in contropiede e sembra intenzionato a mettere sul tavolo una nuova proposta forte.

Come riporta il sito Today.it, l’esecutivo sarebbe intenzionato a proporre un riforma che permetterà di andare in pensione prima dei 67 anni previsti dalla Fornero, ma ricalcolando l’assegno col metodo contributivo perché la flessibilità in uscita sia sostenibile, in modo che non abbia cioè un impatto sui conti pubblici. Cgil, Cisl e Uil non potrebbero mai dire di sì se ciò comportasse un taglio del 30%, come accade esempio con Opzione Donna, che è stata confermata per tutto il 2022.

Un punto di mediazione!

Il punto di mediazione che si presenta sarebbe il seguente: via dal lavoro da 64 anni con almeno 20 di contributi e una penalizzazione del 3% al massimo per ogni anno di anticipo. A patto che la pensione spettante non sia troppo bassa, ma superiore all’assegno sociale di un certo numero di volte. La formula di quel tipo è già realtà per i contributivi puri, quelli che lavorano dal 1996, con un multiplo di 2,8 volte: si esce a 64 anni solo con pensioni di almeno 1.311 euro. Limite eccessivo, per i sindacati. Il governo potrebbe abbassarlo, se decidesse di estendere questa formula a chi è nel sistema misto (retributivo e contributivo).

I Sindacati: non penalizzare troppo!

Questa strada potrebbe essere quella giusta. L’Europa non si opporrebbe in alcun modo a scenari simili, perché in Italia così si estende il contributivo a tutti, di fatto. I numeri dicono inoltre che il 90% delle persone in uscita dal lavoro andranno in pensione con il calcolo misto e che la parte retributiva peserà solo per il 30% sull’assegno. Un piccolo taglio della parte retributiva non sarebbe un dramma. I Sindacati tentennano, ma aprono. “Dipende come si fa il ricalcolo, noi siamo contrari in ogni caso, troppo penalizzante“, avverte qualcuno.

Un piano studiato dall’economista Michele Raitano può rappresentare la soluzione. Nessun ricalcolo come in Opzione Donna, bensì un’attualizzazione del pezzetto retributivo. In pratica un adeguamento, a cui si arriva applicando la differenza tra due indicatori importanti che trasformano la massa di contributi versati nel corso degli anni (il montante) in pensione: i coefficienti di trasformazione (ce n’è uno per ogni età di uscita). La parte retributiva sarebbe decurtata della differenza tra i coefficienti corrispondenti a 64 e 67 anni, l’età di anticipo e quella legale. Tecnicismi a parte, vuol dire che al massimo si arriverebbe al 3% all’anno di taglio, 9% in tre anni, e limitato alla parte retributiva, non a tutta la pensione.

Rispunta Quota 41!

Le parti sociali, da parte loro, da tempo hanno messo nero su bianco le richieste: vorrebbero l’estensione della flessibilità a partire dai 62 anni o con 41 di contributi a prescindere dall’età, permettendo ai lavoratori di poter scegliere quando andare in pensione senza penalizzazioni per chi ha iniziato a versare prima del 1996. Tra le ipotesi anche la modifica del meccanismo di adeguamento alla speranza di vita. Cgil, Cisl e Uil puntano su condizioni più favorevoli e strutturali per l’accesso alla pensione delle categorie più deboli, ad esempio gli usuranti che rientrano nell’Ape sociale, che potrebbe essere ampliata, diventando quasi strutturale.

 

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