Pensioni e lavoro: le donne ancora penalizzate

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L’Inps ha reso noto che sono state presentate 201.022  domande per l’accesso alle pensioni anticipate in regime di Quota 100, di cui 148.629 inoltrate da uomini e 52.393 da donne. Nel triennio di sperimentazione della misura si stima che andranno in pensione poco più di 341 mila le persone, in prevalenza uomini. Le donne lavoratrici che ricorreranno a Quota 100 per andare in pensione nel triennio 2019-2021 saranno 43.500 del settore privato e più di 56.200 di quello pubblico. La platea residua è composta da oltre 214 mila uomini.

E’ il risultato di  uno studio realizzato da Cgil e Inca, nel quale viene sottolineato come l’uscita dal mondo del lavoro con 62 anni d’età e 38 di contributi non sia “una risposta al femminile”. L’impossibilità di poter accedere a Quota 100, per Cgil ed Inca, è solo la punta dell’iceberg delle disuguaglianze di genere nel sistema previdenziale italiano. Le pensioni di vecchiaia erogate alle donne sono il 48% in meno rispetto a quelle erogate agli uomini, quelle anticipate il 20% in meno. Inoltre, l’83% delle pensioni integrate al minimo sono liquidate alle donne, che ricevono una pensione di vecchiaia che ammonta a 645 euro lorde al mese. Per quanto riguarda la pensione anticipata, nel rapporto si evidenzia che hanno potuto accedere a strumenti quali l’Ape sociale ed al beneficio pensionistico riservato ai lavoratori precoci solo rispettivamente il 34% e il 17% delle lavoratrici.

Il lavoro familiare delle donne

Un aspetto da non trascurare, osservando i dati dell’occupazione femminile, è quello relativo allo sbilanciamento della divisione dei ruoli sociali in una famiglia. Si legge nel dossier: “La situazione di doppia presenza femminile, nella famiglia e nel mercato del lavoro, costringe ancora oggi molte donne in età lavorativa ad assumere delle scelte, e molte di loro non accedono al mercato del lavoro. Se lo fanno vivono carriere discontinue e/o lavorano con impieghi part-time soprattutto a causa dei ruoli di cura che ricoprono”.

Secondo gli ultimi dati ’ISTAT, madri e gestione “maternità” relativi al 2015, circa il 20% di tutte le madri occupate all’inizio della gravidanza non lo è più dopo due anni. In particolare, il 6% è stato licenziato o ha perso il lavoro in seguito alla scadenza del contratto o per cessazione dell’attività lavorativa che svolgeva, il 12% si è dimesso per potersi dedicare alla famiglia. Dopo la nascita dei figli non lavora più un quarto delle madri residenti al Sud e il 15% di quelle residenti al Nord. Lascia o perde il lavoro il 32% delle madri che hanno al massimo la licenza media, l’8% delle laureate. La maggior parte delle donne (72,5%) prosegue l’attività lavorativa che svolgeva prima della gravidanza, ma il 40% dichiara di aver difficoltà nel conciliare la vita lavorativa con quella familiare e ricorre al part-time. Nel 2009 in Italia il 27,5% delle donne aveva contratti di lavoro che prevedono tempi ridotti.

Per Cgil ed Inca “la conciliazione tra vita familiare e lavorativa, in assenza di servizi adeguati per l’infanzia induce molte donne in età lavorativa a rinunciare a un’occupazione a tempo pieno, ma può rappresentare anche un ostacolo all’avanzamento di carriera. La nascita di un figlio sembra rappresentare più di altro un momento decisivo nella vita lavorativa di una donna“.

In pensione con il sistema contributivo

Nel rapporto viene segnalata un’altra circostanza che rappresenta un’ulteriore penalizzazione per le donne: le lavoratrici che andranno in pensione con il sistema contributivo (tra il 2035 e il 2040) saranno costrette ad aspettare i 73 anni di età poiché il loro reddito non supera di 2,8 volte (1280 euro) o 1,5 volte (680 euro) l’assegno sociale.

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